08 Apr Vittoria Ottolenghi: “La danza è una”
Ha lasciato un vuoto incolmabile. Perché era unica.
Con la sua cultura, il suo garbo, la scrittura semplice e folgorante, il giudizio incisivo e sempre avanti. Vittoria Ottolenghi non c’è più. Era una gran signora prima che un autorevole critico di danza. Una persona schiva e gentile che sapeva tirare fuori gli artigli al momento giusto.
Un monumento per l’arte tersicorea. Ha illuminato tutti con la sua scrittura sapiente, la sua presenza elegante e discreta, le sue parole singolari, il suo entusiasmo, i mille colori che solo lei sapeva inventare, l’ironia di chi era sfuggito all’olocausto, orribile abominio della nostra ‘umanità’. Era amica dei più grandi protagonisti del secolo- uno fra tutti Rudolf Nureyev- che ha seguito nel corso di anni e anni di trionfi.
Aveva una marcia in più, sapeva guardare sempre oltre, più passava il tempo e più sorprendeva per il suo interesse verso tutto ciò che era nuovo. L’arte deve andare avanti ma lei era sempre dannatamente più avanti di tutti. Oltre la danza classica, i tutù, le coroncine, era attenta alla danza contemporanea, all’hip-hop, alle nuove tendenze, all’avanguardia. E non si stancava mai, fino alla fine della sua vita ha continuato ad alimentare la speranza di nuovi orizzonti, alla ricerca di territori inesplorati. Continuava a prodigarsi per diffondere l’arte della danza, in tutte le sue sfumature, portandola fuori dai teatri, dove il pubblico l’ha seguita.
Ho conosciuto Vittoria Ottolenghi quando avevo nove anni e da allora il nostro rapporto non si è mai interrotto, da vicino o da lontano, per un motivo o per un altro ha segnato in maniera indelebile il mio rapporto con la danza. Mi voleva bene e per tanti, tantissimi anni ho coltivato il nostro legame come un qualcosa di prezioso. Mi ha sempre incoraggiato a scrivere, ad essere curiosa, a guardare oltre. Come amava ripetere la danza le era “caduta nel piatto”, così per caso. Eppure è diventata in poco tempo un critico di grande caratura, lei che si definiva uno “strano critico”, passava con disinvoltura dai grandi protagonisti ai piccoli gruppi, dalle compagnie internazionali a quelle di nicchia. Nel segno della curiosità. “Bisogna amare ciò che si fa. Tutto quello che facciamo ci deve piacere”, ripeteva spesso e poi ancora: “Non credo nella stroncatura, il critico di danza deve spiegare al pubblico ciò che accade in scena, aiutarlo a capire, accompagnarlo per mano, al di là del giudizio personale. Non penso di essere un giudice ma una privilegiata che non paga e vede cose sempre diverse. Ciò che conta è l’informazione ancor più dell’opinione, perciò preferisco fare le presentazioni piuttosto che le recensioni. Chi siamo? Un tribunale ci ha eletto giudici? Per i religiosi e per chi ci crede esiste la verità rivelata, nelle arti no!”.
Non aveva mai studiato danza e ne era orgogliosa: “Un critico di danza non deve essere un ballerino mancato. Così come il critico cinematografico non deve essere un attore o un regista senza talento”. E poi come dimenticare “Maratona d’estate”? Una finestra privilegiata sul mondo della danza, con cui si sono formate intere generazioni di danzatori, di coreografi, di giornalisti del settore in un’epoca in cui non esistevano videoregistratori, computer, You tube. Ha regalato a tutti noi la possibilità di viaggiare nei migliori teatri del mondo con le stelle più luminose del pianeta.
Ci ha fatto sognare, portando in casa nostra il meglio del meglio, mettendo a nostra disposizione la varietà di stili, il confronto tra le tante compagnie, le differenze tra una versione e l’altra dello stesso balletto, ci ha reso più consapevoli del nostro amore per la danza e ha contribuito a coltivare in noi una passione, per tanti divenuta poi professione. Nella sua casa romana dove accoglieva gli ospiti con affetto e semplicità, era quasi impossibile non perdersi tra i suoi tanti libri, i suoi ricordi meravigliosi, i suoi mille aneddoti, il fascino della sua cultura; dalla sua celebre scrivania, parlava al pubblico televisivo come una zia che racconta ai nipoti storie di famiglia avvincenti. Zia Vittoria. Per tutti coloro che l’hanno amata, seguita, rispettata era un punto di riferimento unico. “Mi considero l’ultimo dinosauro, un tipo un po’ bizzarro che dice sempre quello che pensa. Dico se uno spettacolo non mi piace anche se piace agli altri. Rispetto il mio lavoro”. “Se dovessi racchiudere tutta la mia vita in una parola questa parola sarebbe libertà, mi piace poter cambiare idea durante la notte, dopo aver visto uno spettacolo”.
Ci ha insegnato proprio tanto.
In un libro su Nureyev dedicato al grande amico di sempre Alberto Testa, critico e storico di danza, con il quale “siamo stati amici, collaboratori, concordi e discordi”, Vittoria scrive: “Rudolf era proprio er più…non credi?”, solo lei poteva essere così singolare. Oltre ai suoi meravigliosi libri che restano un testamento forte di ciò che pensava, ci ha lasciato un’eredità unica: l’amore per la danza, tutta. Perché come ripeteva spesso la danza è una, si divide in quella bella e quella brutta. È stata sempre lei a dare un’impennata all’hip-hop, perché non c’è niente da fare…era la più giovane tra tutti, curiosa, avida di novità, sempre un chilometro più avanti degli altri.
“Bisogna andare avanti per forza…tanto vale farlo con dignità e qualche sorriso”.
Se n’è andata. Senza di lei la danza è ancora più sola.
Oggi sarebbe stato il suo compleanno, la voglio ricordare con la mia intervista che le feci nel 2006:
Signora Ottolenghi, chi è un critico di danza?
Come prima cosa non è un giudice. Bisogna metterselo bene in testa, nessuno ci ha dato il permesso di dire cosa è bello, cosa è brutto, chi è bravo, chi non lo è. Un critico di danza, come di qualsiasi altra arte, è un tramite; deve aiutare il creatore a farsi capire, laddove potrebbero esserci dei punti oscuri, e aiutare il pubblico, la quarta parete – che è importante quanto le altre tre – dandogli delle esche. Mai dire ‘vuol dire questo o vuol dire quell’altro’, bisogna dare delle possibilità. Ogni lettore prenderà ciò di cui ha bisogno in quel momento.
Lei ha conosciuto i più grandi personaggi della danza del nostro tempo…
In ottantadue anni di vita ne ho incontrata di gente! Persone mitiche che, se ci penso, mi sembra quasi impossibile. Ho conosciuto Ted Shawn, colui il quale – tanti anni prima di tutti gli altri – faceva danzare gli uomini seminudi. Una cosa paurosa, tipo ‘physical theatre’ come si usa adesso in Gran Bretagna, e come fa Russel Maliphant, canadese. Poi ho conosciuto Kurt Joos (Il tavolo verde), puoi immaginare che tutto avrei voluto nella mia vita tranne che incontrare un tedesco e invece quando venne a Roma mi ha dato una di quelle lezioni! Nel 1932 era così antinazista che è dovuto scappare dal teatro fuggendo dai tetti, mentre i nazisti lo inseguivano e non è più tornato a casa perché ha raggiunto l’Inghilterra con un peschereccio. Non posso dimenticare Martha Graham e naturalmente la forte amicizia che mi ha legato a Rudolf Nureyev. L’ho molto amato, non in maniera mitica né mistica, ma come amico, fraternamente. Mi telefonava la sera per chiedermi delle cose, non sapeva conversare quindi faceva delle domande precise alle quali io rispondevo. Era una sensazione molto piacevole essergli utile, anche se poi non sempre seguiva i miei consigli, ma per carità…gli servivo come interlocutore. E poi sono molto affezionata a Carla Fracci perché è una persona che danza come è. È una bella persona e danza bene.
Qual è l’artista che l’ha emozionata di più?
Rudolf Nureyev, senza dubbio. Quando era solo in scena e preparava l’attesa dell’amore – penso al principe Florimondo che nella Bella Addormentata aspetta non si sa bene che cosa, ma noi sappiamo che incontrerà Aurora e scoprirà l’amore, così come Sigfrido che nel Lago dei cigni aspetta con la balestra in mano che arrivi qualcosa, ed è l’arrivo dei cigni – lui era tutto lì, emozionante e straordinario, nell’attesa di qualcosa che chissà…forse per lui non è avvenuta mai.
Intere generazioni hanno visto e conosciuto la danza attraverso Maratona d’estate, la trasmissione RAI che per merito suo ha divulgato l’arte della danza. Che cosa ne pensa della danza in televisione, oggi?
Siamo stati dei pionieri e abbiamo fatto certamente un lavoro discreto. Quello che succede oggi, ed è gravissimo, è che ci sono persone (che per la verità non appartengono alla RAI) che con molta disinvoltura spacciano per cultura, per arte, per danza, quelle che sono speculazioni banali di soldi, operazioni volgari, finte scuole, finti pubblici, finti spettacoli, finti teatri, finti professori, finti tutti. Oppure se sono professori veri sono lì impietriti per l’orrore di sé. Invece il format americano di Milly Carlucci Ballando con le stelle, è un’operazione corretta.
Lei ha sempre avuto la capacità di guardare oltre il panorama attuale, di scoprire nuove tendenze, di essere sempre un passo più avanti. Come si fa a restare così giovani?
Giovani e vecchi non sono due qualità, sono delle condizioni temporanee e ricordati che tra un vecchio imbecille e un giovane imbecille è sempre meglio il vecchio, perché muore prima. Il giovane te lo ritrovi sempre tra i piedi.
Che cos’è la danza per lei?
È una delle arti. Mi piacciono tutte, anche se me ne intendo poco; la danza è quella che ho visto di più. L’arte è un piacere della vita, se ce la tolgono cosa ci rimane?
Grazie Vittoria. Non ti dimenticheremo mai.
Elisabetta Testa
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