Teatro San Carlo: La danza francese da Serge Lifar a Roland Petit (dal ginocchio in su)

Metti una calda sera d’estate e la solita voglia di assistere ad uno spettacolo di danza. Lo spazio è singolare: il cortile del Palazzo Reale, dove NON è la prima volta che vanno in scena produzioni del Teatro San Carlo, come scritto su alcuni giornali. Si spengono le luci, dopo una lunghissima ouverture diretta dal maestro Jonathan Darlington – al suo posto su una pedana rialzata (la sua sagoma ha coperto gran parte dell’azione performativa) – arrivano i ballerini e ci si rende conto che la visibilità è ristretta dal ginocchio in su, nel migliore dei casi. Dunque tutto il lavoro tecnico, relativo alle punte, alle batterie, al disegno coreografico, alla bellezza delle linee infinite, viene completamente perso. Una notevole ‘distrazione’ per chi organizza spettacoli di danza, considerando anche che gli ultimi due titoli in programma, sono talmente drammatici che richiedono un spazio racchiuso, silenzioso e non l’allegra e lecita confusione della splendida Piazza Plebiscito di notte, col rombo di cinque aerei che ci sono passati sulle teste, con rintocchi di campana della chiesa vicina e un forte vocio di curiosi, dietro al cancello di ingresso, a pochi metri dal palco. Forse aveva ragione Arturo Toscanini che al giornalista che gli aveva chiesto cosa ne pensasse degli spettacoli all’aperto rispose secco: “All’aperto si gioca a bocce!”.

Inoltre, su quattro spettacoli di danza in calendario, spalmati in un anno, c’era anche la concomitanza del Premio Positano Léonide Massine, giunto alla 52° edizione…insomma, ci vorrebbe un po’ più di attenzione nella programmazione e un po’ più di rispetto verso il pubblico che ha il diritto di VEDERE lo spettacolo.

Coetaneo di George Balanchine definito ‘l’architetto della danza’, Serge Lifar – nato a Kiev nel 1905 – ha avuto una vita piena, esaltante, ricca di esperienze di ogni genere. Allievo di Bronislava Nijinskaja, sorella del genio Vaslav, ha lavorato nella Compagnia dei Balletti Russi e per trent’anni ha diretto il Balletto dell’Opéra di Parigi. Ballerino, coreografo, insegnante, divulgatore dell’arte della danza, Lifar tra i tanti lavori ha creato Suite en blanc che è andato in scena proprio all’Opéra di Parigi nel luglio del 1943. Danzato nel Cortile d’onore del Palazzo Reale dal Corpo di Ballo del Teatro San Carlo diretto da Clotilde Vayer (che dal primo settembre dirige anche la Scuola di Ballo) è stato rimontato per l’occasione da Charles Jude e Stephanie Roublot.

Suite en blanc con la roboante musica di Édouard Lalo – e i lunghi tutù bianchi – è un susseguirsi astratto di ensemble, passi a due, a tre, a quattro, in cui la tecnica classica/neoclassica strizza l’occhio ai grandi balletti di repertorio. Si passa da schemi più semplici a soluzioni molto articolate, a tratti addirittura impervie e ‘scomode’ da eseguire, con un uso quanto meno singolare delle braccia e delle mani. Un bel lavoro di gruppo, presentato dalla compagnia napoletana in cui spiccano sempre più elementi dotati e talentuosi come Giorgia Pasini, Chiara Amazio, Vittoria Bruno e naturalmente Alessandro Staiano, Claudia D’Antonio, Danilo Notaro, Salvatore Manzo e Martina Affaticato, da anni fiori all’occhiello della compagnia napoletana.

Bella prova per Alessandro Staiano (nella foto di Luciano Romano), étoile del Teatro San Carlo, che ne Le jeune homme et la mort – creato nel 1946 da Roland Petit sulla toccante musica di Bach e ripreso da Luigi Bonino – ha dato il meglio di sé unendo il suo consueto vigore fisico e tutta la potenza di cui è capace, ad una interpretazione matura, profonda e toccante. La messa in scena di Roland Petit, uno che le storie le sapeva raccontare, simboleggia il dialogo tra un uomo disperato e la donna che rappresenta la morte (non del tutto convincente Chiara Amazio che avrebbe dovuto essere più insinuante/avvolgente/diabolica/sensuale/ammaliante/incisiva) creando una situazione di pathos davvero forte. In questo ‘mimodramma’, come lo stesso Jean Cocteau lo definisce, la tecnica sfiora le leggi di gravità rasentando momenti di pura acrobazia, con salti potenti e atterraggi rischiosi e come in un vortice senza uscita si arriva in un crescendo senza soluzione di continuità al dramma finale, quando il protagonista si impicca.

Gran finale con L’Arlésienne, altro capolavoro di Roland Petit sulla musica di George Bizet – rimontato da Luigi Bonino – che termina col suicidio del protagonista.  Andato in scena nel 1974, L’Arlésienne è forse l’emblema caratteristico dello stile di Roland Petit per quanto riguarda i movimenti del corpo di ballo, a volte anche disarmanti nella loro semplicità ma che creano un effetto caleidoscopico con i consueti intrecci di braccia, i cerchi concentrici, i ricchi e spaziosi movimenti scenici che amplificano gli elementi narrativi della storia in una sorta di scenografia mobile intorno ai protagonisti. Arlésienne è una donna che non compare mai in scena, è il sogno proibito, l’amore impossibile, la donna che non si avrà mai. Anche qui Petit racconta perfettamente il dramma di un amore disatteso, non corrisposto che diventa un tarlo nella mente di chi lo vive, portandolo ad un tragico epilogo. I momenti di felicità, di allegria, di condivisione, di gruppo, si alternano a momenti di solitudine, di intimità, di pensieri scatenanti, in una sorta di intermittenza proustiana che conduce dritta dritta al dramma finale. Davvero brava Claudia D’Antonio, bella, sicura di sé, padrona di una tecnica rifinita e sempre con una grazia delicata quando danza; accanto a lei, Danilo Notaro non ha disatteso le aspettative, anzi! Ha ballato senza risparmiarsi nelle difficili evoluzioni che il ruolo richiede, con un impegno emotivo molto intenso e profondo, fino allo struggente assolo conclusivo. Tutto il Corpo di Ballo del Teatro San Carlo ha lavorato con cura e dedizione e non meritava una visibilità ridotta.

Elisabetta Testa

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