Semplicemente Rudolf

Ci sono persone che anche dopo la morte lasciano un segno indelebile. Rudolf Nureyev è una di queste. La sua è la storia di una leggenda della danza. Nato su un treno il 17 marzo 1938, sfidò qualunque ostacolo pur di affermare la sua voglia travolgente di ballare. Contornato da ricchi e potenti, capi di stato e massime cariche, signore del bel mondo e fanatici, nel profondo del suo cuore non smise mai di pensare alla sua mamma, ai suoi maestri, alla sua terra.

Perché per strane, incomprensibili e ottuse imposizioni di regime, da quando il 17 giugno 1961 si tuffò nelle braccia dei gendarmi all’aeroporto francese Le Bourget, non poté mai più riabbracciare la sua famiglia, neanche scrivere o ricevere lettere. Un abominio vergognoso, per un uomo che era “semplicemente” un artista. Cominciò a studiare da dilettante nei corsi  di danza folkloristica, il suo passatempo preferito, fin da piccolo, era guardare i treni che andavano e venivano. Un presagio,  un segno del destino.

Negli anni successivi studiò alla Scuola Coreografica di Leningrado poi fece parte del Balletto del Kirov dove era solista ma proprio per il suo carattere ribelle, allergico alle regole imposte, durante una tournée a Parigi, decise di non tornare mai più in Russia. Gli stava stretto un paese che non conteneva l’ampiezza delle sue vedute artistiche, la sua curiosità, la sua voglia di imparare, approfondire, ricercare. Senza un soldo in tasca, senza amici a cui appoggiarsi, senza alcuna certezza di sfondare, Rudolf decise in pochi minuti il suo destino. Da allora in poi la sua carriera fu un susseguirsi di trionfi che sono rimasti scolpiti nella storia della danza.

L’incontro con Margot Fonteyn stravolse ogni ipotetica immaginazione. Lei era già quasi alla fine della sua luminosa carriera, famosissima, lui era agli inizi del suo percorso, sconosciuto al pubblico occidentale, l’unico segno distintivo: una tecnica fuori dal comune con giri e salti mai visti prima. Quel che rese la loro coppia incredibile fu la mescolanza perfetta dei loro temperamenti, lei interiore, controllata, lui ardente, esplosivo. Bastò poco per far nascere la leggenda del “tartaro volante”. Era una persona colta, curiosa, sensibile, con un carisma raro. “Ringraziamo il cielo- diceva- che ho un po’ di temperamento. Se non si ha passione nelle cose ci si lascia semplicemente vivere.”

Con Napoli aveva un rapporto speciale, conteso dai teatri di tutto il mondo fu ospite tante volte del Teatro San Carlo, dove  registrava ogni volta il “tutto esaurito”: indimenticabile nel 1982 il suo “Don Chisciotte” e poi “Cenerentola”, accolti dal pubblico napoletano con boati di applausi infiniti. L’ultima volta che ballò in Italia ne “L’Après-midi d’un faune”- in coppia con Patrizia Manieri, prima ballerina del lirico napoletano –  fu nell’agosto del 1991 alla Certosa di Padula dove era ospite per due spettacoli con la Compagnia del Teatro San Carlo. Il mese prima si esibì nel ruolo di direttore d’orchestra, nello splendido scenario di Villa Rufolo a Ravello. La musica gli era sempre stata nel sangue. La sua casa di Parigi, dove ho avuto la fortuna di andare, era un concentrato di mobili antichi, tappeti persiani, tele d’autore, bronzi. Negli ultimi anni, scelse l’isola dei Galli, di fronte a Positano, per vivere con i “piedi nell’acqua”, in una serenità almeno apparente. Per cinque anni, Napoli divenne il suo punto di riferimento e l’isola fu il suo “luogo dell’anima”.

Il mare lo aveva sognato da sempre  ed era molto simile al suo temperamento. Stimava Vittoria Ottolenghi, che lo aveva seguito in lungo e in largo. Una volta, quando era direttore dell’Opéra di Parigi, le disse:”Guardami bene, così come mi vedi ora – tutto sudato, con una tuta sportiva consumata, il mio vecchio berretto di lana in testa e pantofole di feltro-  sto in teatro tutto il giorno, tutti i giorni. Non mi muovo mai dalla sala-prove, dalla classe o dal palcoscenico. E sto sempre con i ballerini. Ho un ufficio, certo, e molti collaboratori. Ma in quell’ufficio non ci ho mai messo piede e i collaboratori vengono qui a chiedermi le cose e a ricevere le istruzioni. Io dirigo da qui. Non delego la danza, mai. La dimostro, l’insegno e la vivo personalmente nei minimi dettagli.”

L’inquietudine lo divorava. Avido di cultura, avido di vita. Una vita che aveva imparato a prendere a morsi e che ad un certo punto si è spezzata fermando il corpo del più grande ballerino del secolo ma non  interrompendo la forza della sua presenza, l’energia, la bellezza, la bravura, l’arte infinita che ha pervaso ogni suo più piccolo movimento. Rudolf è stata la stella più luminosa, ha allargato i confini della danza.

Dal 6 gennaio 1993, non c’è più.

“Qualsiasi cosa accada – rivoluzione, guerra, capovolgimento di ideologie, di religioni, di tutto – io devo continuare a danzare, in ogni caso, fino all’ultimo respiro.”

E così è stato.

Rudolf, re della danza.

Elisabetta Testa

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