20 Gen Massimo Moricone: “la danza è una proiezione visiva di quello che ascolti”
Affabile, pacato, profondo, Massimo Moricone (nella foto di Alessio Buccafusca) – coreografo – è una persona acuta e gentile che si racconta con delicatezza e determinazione. Di ritorno da un periodo di lavoro a Londra, ha firmato nella sua lunga carriera tanti progetti di successo.
– Com’è entrata la danza nella sua vita? –
Per puro caso, ero già grande. Volevo fare l’attore e mi è stato chiesto di prendere delle lezioni di danza, sono andato in una scuola dove insegnava il maestro Joseph Fontano, quindi ho cominciato a studiare e sono stato letteralmente rapito. Ho continuato per un po’ a fare l’attore ma poi mi sono dedicato solo alla danza avendo capito che era tutto quello che volevo fare nella vita.
– Che cosa è stato difficile? La disciplina, il rigore, la lontananza dalla famiglia, il rapporto con i colleghi? –
È stata semplicemente una grande gioia, quando sento i racconti di storie tristissime resto sempre un po’ sorpreso…fare danza è una cosa bellissima.
– Com’è nata la passione per la coreografia? –
Sin dalle prime lezioni ho avuto la sensazione che non mi bastasse imparare la danza solo per ballare, avevo una predisposizione alla creazione, la mia mente viaggiava già tra cose più complicate. Sono andato a studiare al famoso centro di Elsa Piperno e Joseph Fontano, in via del Gesù, e lì ho cominciato anche a fare le prime coreografie.
– Come nasce una sua creazione: da un’idea, dalla musica, da un’emozione? –
Può nascere da una di queste possibilità, non ne escludo nessuna. Sicuramente è molto forte il legame con la partitura musicale ma non è detto, a volte parto da una suggestione letteraria e poi cerco il corredo musicale più adatto.
– Qual è la sua cifra stilistica: classica, neoclassica, moderna? –
Non c’è nessuna connotazione precisa, credo che la cosa più importante sia lavorare sul corpo. I danzatori fanno la differenza, il linguaggio del corpo diventa punto di contatto tra me e loro a prescindere dalla tecnica, che viene in un secondo momento.
– Che cosa la colpisce in un danzatore: la presenza scenica, la bravura tecnica, l’espressività, l’intelligenza del corpo? –
Dall’ultima cosa che ha nominato: l’intelligenza del corpo, è quella che fa la differenza. La tecnica oggigiorno è presente in modo esaustivo, la cosa più rara è guardare un danzatore e osservare la raffinatezza dell’utilizzo della tecnica attraverso il corpo, poi certamente l’espressività, l’interpretazione che si manifestano sempre in modo molto personale. Sono molto rispettoso dell’individualità e della eccezionalità di ciascun danzatore. Ognuno di loro è diverso, all’interno di una compagnia vado sempre a cercare la particolarità del singolo. Un danzatore è prima di tutto un essere umano, è importante per me stabilire un contatto emotivo, parallelamente al lavoro tecnico.
– Che cosa le piace nel mondo della danza e che cosa non sopporta? –
Questo lavoro può diventare abitudinarietà, una cosa un po’ meccanica, nel ruolo delle parti. A volte non c’è nessun tipo di scambio che vada oltre la routine, quando è così non mi piace per niente. Per fortuna non succede tanto spesso! Mi piace tanto quando si instaura un rapporto che va al di là dell’esperienza lavorativa. E anche un’altra cosa, lavorando con allievi mi piace moltissimo guardare i progressi che fanno, è una sensazione impagabile. Ovviamente non parlo di uno stage di due giorni ma di un lavoro continuativo, svolto nel tempo. Vederli scoprire nuove dinamiche, nuove espressioni e vederli trasformarsi, è uno dei regali di questo mestiere. Un’altra cosa che non mi piace è il ricorrere alla quantità per affermare il proprio profilo artistico. Oggi sui social si vede questa quantità sbattuta in faccia senza alcun senso, la danza è tutta un’altra cosa!
– Che cosa la emozione nel suo rapporto con la danza? –
Il momento creativo, quando proprio sei lì con quelle persone, lavorando su quel progetto … io non sono quel tipo di coreografo che stabilisce il proprio verbo, mi sento più che altro uno strumento di passaggio quindi quando sento che c’è quel momento di trasmissione trovo che sia la cosa più gratificante. Ho insegnato per tanti anni alla Scuola dell’Opera di Roma, sono stato assistente di Elisabetta Terabust nei primi anni in cui lei ha preso la direzione della scuola, ho vissuto in prima persona lo sforzo che ha fatto per garantire una didattica di diverso tipo rispetto a quella che aveva trovato. É stato un lavoro affascinante, bellissimo, fatto con una persona eccezionale! Era la ballerina che abbiamo conosciuto tutti ma anche una persona dotata di una generosità che io non ho riscontrato in nessun’altra persona di questo ambiente.
– I suoi impegni più recenti? –
Con l’English National Ballet School, prima ho lavorato col Northern Ballet alla ripresa di una produzione che ho fatto tanti anni fa e che continua ad essere riprodotta: A Christmas Carol dal romanzo di Charles Dickens. In Italia, per lungo tempo – da nord a sud – ho portato in scena Préludes, con Anbeta Toromani, Alessandro Macario e Amilcar Moret Gonzalez. Una creazione fatta in stretta connessione con la partitura musicale suonata, dal vivo, al pianoforte. Ho scelto il fil rouge dei preludi, una forma musicale che appunto prelude ad una azione che verrà dopo. Mi piace sempre citare la frase di un grandissimo coreografo, il più grande: George Balanchine, “guarda la musica e ascolta la danza”. Ho cercato di partire da questo tipo di rapporto, la danza è una proiezione visiva di quello che ascolti.
– Che cos’è la danza per lei? –
È stata ed è parte della mia vita ma in modo assoluto. É quello che ho sempre fatto e quello che amo fare, è parte fondante di Massimo, non potrei immaginarmi diversamente!
Elisabetta Testa
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