25 Mag Gabriel Beddoes, protagonista del progetto “Trentesimo” in giro per l’Italia
Ritornare a Napoli, la sua città, è sempre un’emozione forte nel cuore. Danzatore, coreografo e…’persona curiosa’, aggiunge sorridendo, da cinque anni si è trasferito a Torino. Trentaquattro anni, intelligenza profonda e grande capacità comunicativa, Gabriel Beddoes ha tutta l’esperienza necessaria per vestire i panni del protagonista nel progetto Trentesimo, a cura della Banca Sanpaolo, in giro per l’Italia fino a fine giugno. Senza preamboli parla a ruota libera delle sue idee, dei suoi pensieri, con entusiasmo irrefrenabile e una sensibilità nascosta ed avvolgente: “Negli ultimi anni si è resa sempre più necessaria un’apertura, la danza non è sufficiente. Qualsiasi tipo di disciplina è un ottimo strumento per poter fare esperienza però poi le discipline sono legate ad un contesto ed i contesti sono tanti, quindi bisogna inventarsi altro per ampliare la conoscenza.”
Che cosa c’è della sua vita nelle opere che crea, che cosa porta con sé in scena?
Il desiderio di essere compresi, senza il quale sarebbe tutto inutile…la brama di creare comunione invece di divisione. La danza credo sia stata inventata per fare un overcome di circostanze in cui magari il verbo non era sufficiente ma poi nel tempo è diventato un qualcosa che continua a creare delle separazioni, come quella tra me e il pubblico, tra tipi diversi di pubblico, tra tipi differenti di colleghi e tutto ciò è imbarazzante.
Che cosa è difficile portare in scena?
Delle circostanze omogenee, delle situazioni in cui è richiesto che non ci siano interferenze. Non sono una persona ordinata, non desidero esserlo, non vivo nel tormento di cercare di esserlo e non riuscirci, non voglio passare questo messaggio nelle mie creazioni. La comunicazione non verbale è la prima cosa, l’impatto visivo è il primo contatto che stabilisci con una persona. Le interferenze sono il sale della vita.
Quanto pesa ripetere un copione sempre uguale se l’anima nel frattempo è già più avanti?
Zero, non mi pesa nulla. Nel momento in cui non mi viene dato l’obbligo di attraversare in maniera sterile il materiale ma anzi mi viene chiesto o concesso di portarmi dentro tutto quello che mi serve di giorno in giorno con una tolleranza nei confronti di sfumature e di significato che possono variare di replica in replica, per me non è assolutamente faticoso. Se fai osservazione non ti puoi permettere di giocare con quello che stai dicendo, le sfumature di intenzione le puoi dare quando sei davanti al pubblico. Quando devi costruire il discorso misuri tutte le parole, le conti, le valuti, le ponderi, vedi come funzionano tra di loro, sei pronto a smantellare tutto e ricominciare daccapo. Non è un momento in cui si può giocare con i propri stati d’animo sulla partizione ma quando mi viene data la possibilità, non mi pesa per niente riattraversare tutti i giorni sempre la stessa cosa.
Che cosa la emoziona nella danza?
Mi riempie di gioia vedere spettacoli che sono riusciti a creare quella circostanza molto rara e particolare, preziosissima, sulla quale si fonda tutto il teatro, per cui il seme che sto piantando nell’ora di scena, in quell’ambiente protetto, poi, uscendo dal teatro, ti permette di osservare cose che magari conosci anche molto bene sotto una prospettiva diversa. Questo per me è la pietra miliare del teatro e il teatro a sua volta diventa una pietra miliare all’interno di una vita utopicamente ricca di tutti gli stimoli di cui c’è bisogno perché ti permette di attuare una rivoluzione della prospettiva con cui guardi le cose. Quando succede io sono grato per quello che sto facendo.
Com’è nato il progetto Trentesimo e come si è sviluppato?
Roberta Bonetto ed io abbiamo cominciato due anni e mezzo fa, in modo assolutamente informale, lavorando esclusivamente sulle nostre risorse, cioè con la nostra buona volontà. Abbiamo creato fin da subito un trailer che è stato ben accolto e abbiamo cominciato a lavorare sulla partizione, drammaturgia e coreografia. Da molti anni Roberta stava lavorando su questo progetto, prima di cominciare a farlo con me era in contatto con altre persone poi mi ha proposto di ritagliare questo spettacolo su di me, si è resa conto che potevo essere un buon veicolo per questo spettacolo e anche per ampliare, credo, il concetto di migrante, quello che sono io a Torino.
Qual è il focus dello spettacolo?
La condizione, percepita dalle persone, di precarietà. Sul piano economico, lavorativo ma anche affettivo che riguarda anche la propria identità. È come se il personaggio percepisse che il proprio passato sia una tara. Non solo dobbiamo abbandonare chi siamo, lasciando perdere la nostra persona fisica, ma siamo disposti a sacrificare noi stessi e lasciare il nostro patrimonio intellettuale a servizio di qualcosa, pur di fare qualcosa. Quello che ci viene proposto è spesso un’imposizione, sia per le condizioni nelle quali dobbiamo operare, sia per l’opera in sé perché spesso e volentieri è un’opera che non porta beneficio a se stessi ma ad altri. Il punto più bello dello spettacolo è un brevissimo momento di libero arbitrio, è un processo partecipato, c’è una sproporzione tra lo stato di clausura del protagonista e poi finalmente lo spazio che noi diamo alla liberazione. Magari non sarebbe stato così incisivo questo senso di liberazione se gli avessimo dato più tempo per esprimersi. Le cose poi si sciacquano, se le allunghi si sciacquano…Trentesimo è un progetto della compagnia affiliata alla Banca Sanpaolo che si prende l’onere di finanziare progetti culturali, è un esperimento sociale. Il nostro progetto è molto articolato, composto dal teatro danza – che fa riferimento a me, in qualità di danzatore e coreografo, ed a Roberta Bonetto, autrice e regista – poi c’è Nicola Zambelli che si occupa del documento audio-visivo e infine c’è uno storytelling curato dal giornalista Maurizio Pagliassotti (in collaborazione con Mauro Ravarino). Dunque varie cose che s’intersecano tra loro, quando sarà finito tutto, ognuno di questi prodotti potrà acquisire una propria autonomia e cercare sbocco nei vari sistemi di distribuzione: editoria, cinematografia e teatri.
Che cosa è difficile a trent’anni oggi, in questo mondo?
Stare sereni, ripetersi che si sta bene o cercare di stare bene. Durante il mio recente viaggio in Brasile, immerso nella natura incontaminata e prorompente, perfettamente equilibrata, mi sono dovuto chiedere, e me lo sono chiesto più volte, se stavo bene. Il problema non è se stai bene o stai male ma nel momento in cui riconosci di stare male la domanda successiva è: “Come faccio a stare bene? Come recupero il mio equilibrio?” Nella foresta brasiliana era palese che se c’era qualcosa in uno stato di disequilibrio, era una forte interferenza a discapito dell’equilibrio, che inciampa, cade e spezza rami.
Tre aggettivi nei quali si riconosce?
Disordinato, premuroso più che affettuoso, caparbio.
Che cosa cerca nella sua danza, a che punto è il suo percorso creativo?
Emotivamente mi sto distaccando a sufficienza dal lavoro per riuscire a trarne dei risultati, che non sono quelli economici o di fama, che ripudio, ma posso trarre dei risultati dalla mia capacità di espressione. Ho capito che non sarò mai soddisfatto solo ed esclusivamente utilizzando un unico registro linguistico. Così come quando in Inghilterra, dopo il primo anno di studi, imparai a parlare perfettamente in inglese e poi mi fecero notare che la proprietà di linguaggio era una cosa gradita ma che risultavo molto più incisivo conservando una parte della mia napoletanità. Allo stesso identico modo non desidero la perfezione, la ricerco e la rincorro fino ad un certo punto perché bisogna lasciare spazio anche ad altri tipi di linguaggio che sono quello fisico ed empatico. La mia danza deve necessariamente avere proprietà di linguaggio – perché se parli ad un pubblico devi sapere cosa gli stai dicendo – empatia, perché se non crei un ponte col pubblico hai la responsabilità di mandarli a casa senza che abbiano provato nulla, e poi confidenza nel proprio corpo. Un corpo che sa stare senza fare è un corpo che già riesce ad esprimere una disinvoltura e una serenità che porta poi la comunicazione. È la famosa intelligenza del corpo. Mi piacciono molto gli spettacoli che curano un disegno armonioso, dall’estetica si può fare un discorso trascendente, che arriva a parlare di altro. Chi non usa i colori non fa i quadri.
Elisabetta Testa
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